La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, Cassazione Civile n. 12662 del 2021, è intervenuta per contraddire un proprio precedente orientamento, in tema di domanda cd trasversale, ossia la domanda riconvenzionale, fatta dal convenuto, nei confronti di altro convenuto già presente in giudizio.
Sinora l'orientamento era univoco: anche per questione di natura di economia processuale, il convenuto che voleva avanzare una domanda nei confronti di altro convenuto già presente in giudizio, non doveva fare altro che formulare la propria domanda nell'atto di costituzione, senza chiedere il differimento di udienza.
La Cass. Civ. 12662 del 2021 stravolge tale impostazione, accostando la domanda trasversale alla cd chiamata di terzo, sancendo l'obbligo per il convenuto, di costituirsi nei termini e chiedere il differimento dell'udienza, al fine di effettuare le notifiche.
Ha quindi sancito il seguente principio: " Nel processo civile, caratterizzato da un sistema di decadenze e preclusioni, conseguente alla novella di cui alla legge 26/11/1990 n.353 e successive plurime modifiche e integrazioni, un convenuto può proporre una domanda nei confronti di altro soggetto, pure convenuto in giudizio dallo stesso attore, in caso di comunanza di causa o per essere da costui garantito, facendo a tal fine istanza con la comparsa di risposta tempestivamente depositata a norma degli artt.166 e 167 cod.proc.civ. e procedendo quindi ai sensi dell'art.269 cod.proc.civ., previa richiesta al giudice di differimento della prima udienza allo scopo di provvedere alla citazione dell'altro convenuto nell'osservanza dei termini di rito»
Poichè la massima è in contrasto con altre precedenti, si auspica un intervento risolutivo della Cassazione a sezioni unite.
DI seguito di trascrive il testo integrale della Ordinanza della Cassazione n. 12662 del 12.05.2021, buona lettura ( la foto illustra una insidia per l'operatore del diritto..):
"ORDINANZA sul ricorso 7155/2016 proposto da: Banco Popolare Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma V. Cola di Rienzo 217 presso lo studio della dottt.ssa Maria Chiaramonte e rappresentata e difesa dall'avvocato Ivan Antonio Andrea Chiaramonte, in forza di procura speciale in calce al ricorso, -ricorrente - contro Motta Salvatore, Niceta Massimo, - intimati - nonché contro Niceta Massimo, elettivamente domiciliato in Roma V. Arbia 15 presso lo studio dell'avvocato Maria Rosaria Sernicola e rappresentato e difeso dall'avvocato Antonio D'Asaro, in forza di procura speciale su foglio separato allegato alla memoria di costituzione di nuovo difensore del 15/1/2019, in sostituzione dell'originario difensore deceduto, avvocato Riccardo Jamiceli, -controricorrente incidentale - contro Banco Popolare Coop Società, Motta Salvatore, - intimati - nonché contro Motta Salvatore, elettivamente domiciliato in Roma Via Federico Cesi 21 presso lo studio dell'avvocato Salvatore Torrisi e rappresentato e difeso dall'avvocato Rosa Viviana Sidoti, in forza di procura speciale in calce al controricorso, -controricorrente - nonché contro Banco Popolare Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma V. Cola di Rienzo 217 presso lo studio della dott.ssa Maria Chiaramonte e rappresentata e difesa dall'avvocato Ivan Antonio Andrea Chiaramonte, in forza della predetta procura speciale in calce al ricorso, -controricorrente - avverso la sentenza n. 215/2015 della CORTE D'APPELLO di CATANIA, depositata il 05/02/2015; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/03/2021 dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI FATTI DI CAUSA 1. Con atto di citazione notificato il 25/3/2003 Salvatore Motta ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Catania la Banca Popolare di Novara (di seguito: BPN) e Massimo Niceta, chiedendo la loro condanna alla restituzione della somma di C 51.646,00, rispettivamente la prima ex art.2049 cod.civ. per il fatto del suo funzionario Paolo Piro e il secondo per difetto di titolo alla detenzione della somma sul proprio conto corrente. A tal fine l'attore aveva dedotto che nel quadro dei rapporti bancari da lui intrattenuti presso l'agenzia di Catania del Banco Popolare di Novara (contratto di gestione di patrimoni mobiliari, deposito titoli e conto corrente di gestione) il 30/4/2001 aveva consegnato al funzionario preposto, il dott. Paolo Piro, la somma di £ 100.000.000 in contanti perché effettuasse l'investimento più remunerativo e che costui, per mera svista, aveva riversato la predetta somma sul conto corrente di altro cliente, Massimo Niceta. Si sono costituiti in giudizio entrambi i convenuti, eccependo la decadenza dell'attore dall'azione proposta per la mancata impugnazione degli estratti conto ex art.1832 cod.civ. e chiedendo il rigetto della domanda. La Banca Popolare di Novara ha chiesto di essere garantita dal coevocato Niceta; questi ha eccepito la tardività di tale domanda, avanzata dalla BPN solo all'udienza di comparizione in violazione dell'art. 167 cod.proc.civ., e a sua volta ha chiesto il risarcimento dei danni nei confronti sia della BPN per violazione della buona fede e del segreto bancario, sia del signor Motta per utilizzazione di dati personali. Il Tribunale di Catania con sentenza del 24/5/2007 ha respinto tutte le domande, condannando l'attore a rifondere le spese processuali alle controparti.2. Avverso la predetta sentenza di primo grado ha proposto appello Salvatore Motta, a cui hanno resistito gli appellati BPN e Niceta, quest'ultimo proponendo altresì appello incidentale. L'appellante ha sostenuto l'erroneità della sentenza impugnata sia per aver accolto l'eccezione di decadenza ex art. 1832 cod.civ. proposta dalla Banca per mancata contestazione e/o impugnazione degli estratti conto bancari, sia per aver ritenuto non provata la dazione di denaro dal Motta al funzionario di Banca, dott. Paolo Piro; ha inoltre lamentato l'omessa e contraddittoria motivazione per aver attribuito al disconoscimento della firma apposta sulla distinta del versamento a nome di Massimo Niceta il valore di conferma della mancata dazione della somma per cui era causa, mentre tale elemento costituiva, al contrario, la prova che il Niceta non aveva versato in banca la somma de qua. BPN, in via subordinata rispetto alla richiesta di rigetto del gravame, ha chiesto la condanna di Massimo Niceta alla restituzione delle somme accreditategli ingiustificatamente. La Corte di appello di Catania con sentenza del 5/2/2015 ha accolto l'appello e ha condannato il BPN a pagare la somma di C 51.646,00, oltre interessi dalla domanda, in favore di Salvatore Motta; ha dichiarato inammissibile la domanda di garanzia avanzata da BPN nei confronti di Massimo Niceta; ha rigettato l'appello incidentale di Massimo Niceta; ha compensato le spese processuali sia tra Motta e Niceta, sia tra Niceta e BPN; ha condannato infine BPN a rifondere le spese del doppio grado in favore del Motta. In particolare, la Corte di appello ha ritenuto che non fosse stata fornita dalla Banca la prova della data esatta in cui il Motta avrebbe ricevuto gli estratti conto in questione, perché lui si era limitato ad affermare genericamente, nell'atto di citazione, di averli ricevuti nei mesi successivi al versamento dei 100 milioni; di conseguenza, mancando la prova del dies a quo, l'eccezione di decadenza di cui all'art. 1832, comma 2, cod.civ. non poteva essere accolta. La Corte territoriale ha inoltre ritenuto che la Banca non avesse fornito la prova, né tantomeno dedotto una data di chiusura del conto in questione diversa da quella semestrale di cui all'art. 1831 cod.civ., computabile dalla data di stipula del contratto (7/3/2000) e che pertanto l'estratto conto del mese di aprile 2001 non poteva pervenire all'attore prima del mese di ottobre 2001, essendosi chiuso il conto nel mese di settembre 2001. Ha poi ritenuto attendibile la testimonianza resa in primo grado dal dott. Paolo Piro, non potendosi screditare il teste per il solo fatto che lo stesso aveva dichiarato di aver ricevuto un'ingente somma dal Motta senza rilasciare ricevuta alcuna, poiché questa prassi era usuale tra le parti, seppure in contrasto con le regole bancarie. Inoltre la Corte etnea ha osservato che l'erronea indicazione da parte del Motta della data della dazione (30 aprile 2001), poi confermata dal Piro in sede di testimonianza, poteva ritenersi scusabile a causa del tempo decorso; per la stessa ragione, la circostanza che il Piro avesse dichiarato di essersi recato a Palermo per incontrare il Niceta il giorno successivo a quello del versamento da parte del Motta (30 aprile 2001), cioè il primo maggio, era evidentemente una «svista» dovuta al lasso di tempo intercorso tra i fatti di causa e l'instaurazione del giudizio e, pertanto, la data della dazione «non poteva essere che quella del 29 aprile 2001», dovendosi ritenere inverosimile che la banca fosse aperta in un giorno festivo. 3. Avverso la predetta sentenza, non notificata, con atto notificato il 4/3/2016 ha proposto ricorso per cassazione il Banco Popolare soc. coop., successore di BPN per atto di incorporazione del 29/11/2011, svolgendo sei motivi. Con atto notificato il 7/4/2016 ha proposto controricorso e ricorso incidentale Massimo Niceta e ha chiesto di rigettare il quarto, quinto e sesto motivo del ricorso principale del Banco Popolare; in via incidentale, il ricorrente ha chiesto di cassare la sentenza impugnata, sia laddove aveva accolto le domande del Motta, che invece dovevano essere rigettate integralmente, sia laddove aveva respinto la sua domanda risarcitoria verso il BPN e verso il Motta e di condannare il sig.Motta ai sensi dell'art.96 cod.proc.civ.; il tutto con il supporto di sette mezzi di ricorso incidentale. Con atto notificato il 12/4/2016 ha proposto controricorso Salvatore Motta, resistendo sia al ricorso principale sia a quello incidentale, di cui ha chiesto il rigetto. Con controricorso notificato il 16/5/2016 il Banco Popolare ha resistito al ricorso incidentale del Niceta, nella parte diretta nei suoi confronti, chiedendone la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto. Il ricorrente incidentale Niceta ha depositato memoria illustrativa, come pure il controricorrente Motta (volta a segnalare il decesso del sig.Salvatore Motta il 13/3/2020). RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Non può essere accolta la richiesta di interruzione del processo proposta dal difensore del controricorrente Motta per il decesso del suo assistito. Nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l'istituto dell'interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, né consente agli eredi di tale parte l'ingresso nel processo (Sez. L, n. 1757 del 29/01/2016, Rv. 638717 - 01; Sez. 3, n. 8377 del 09/07/1992, Rv. 478115 - 01).2. I primi tre motivi di ricorso principale del Banco Popolare, diretti nei confronti di Salvatore Motta, presentano profili di connessione e possono essere affrontati congiuntamente. 2.1. Con il primo motivo di ricorso principale, proposto ex art.360, n.3 e n.5, cod.proc.civ., il Banco Popolare denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art.1832, comma 1, cod.civ. con riferimento al rigetto dell'eccezione di decadenza dell'attore per aver tardivamente contestato le risultanze dell'estratto conto. La ricorrente attacca la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato l'eccezione di decadenza dell'attore dal diritto di contestare le risultanze dell'estratto conto, ritenendo che la banca non avesse provato la data in cui tali estratti erano stati ricevuti dal Motta. In tal modo, la sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con i principi in materia di onere probatorio in quanto, ai sensi dell'art. 1832, comma 1, cod.civ., la mancata, specifica e tempestiva contestazione dell'estratto conto equivale a tacita approvazione del medesimo. A dire della ricorrente, il termine di decadenza di cui all'art. 1832, comma 1 - da individuarsi in quello di cui all'art. 119, comma 3, T.U.B., pari a sessanta giorni dal ricevimento dell'estratto - era innegabilmente decorso, poiché il versamento dell'importo da parte del Motta, come dallo stesso dichiarato, era avvenuto in data 30/4/2001, mentre la lettera raccomandata di contestazione era stata inviata solo il 28/2/2002 (e ricevuta dalla Banca 1'8/3/2002) e l'azione giudiziale di impugnazione era stata proposta dal Motta a distanza di quasi due anni dall'evento contestato (in data 25/3/2003). Sostiene inoltre la Banca che la presunzione legale di approvazione del contenuto dell'estratto conto, in assenza di contestazione entro il termine previsto pattuito, rispondente agli usi o che possa ritenersi congruo secondo le circostanze (art. 1832, comma 1, cod.civ.), non era stata superata dall'ammissione, in sede di citazione, della ricezione dell'estratto conto. Pertanto, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente interpretato l'art. 1832, comma 1, cod.civ., ritenendo non provato un elemento (ossia il dies a quo del termine di decadenza) di cui la legge presume l'esistenza in assenza di tempestiva contestazione da parte del correntista. 2.2. Con il secondo motivo di ricorso principale, proposto ex art.360, n.3 e n.5., cod.proc.civ., la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt.1832, comma 2, e 2966 cod.civ. La ricorrente sostiene che l'impugnazione dell'estratto conto nei sei mesi avrebbe dovuto necessariamente essere proposta a pena di decadenza con l'azione giudiziale, non essendo sufficiente a tal fine una mera contestazione stragiudiziale. Nella specie, il Motta avrebbe dovuto impugnare le risultanze degli estratti conto nel termine di sei mesi dalla loro conoscenza, acquisita con la redazione e presentazione della contestazione del febbraio 2002. Invece, il giudizio dinanzi al Tribunale di Catania è stato instaurato in data 25/3/2003, a distanza di quasi due anni dalla presunta operazione contestata (effettuata in data 30/4/2001) e a distanza di oltre un anno dalla contestazione a mezzo raccomandata ricevuta dalla Banca in data 8/3/2003. 2.3. Con il terzo motivo di ricorso principale, proposto ex art.360, n.3 e n.5, cod.proc.civ., il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art.1831 cod.civ. Secondo la ricorrente, l'art.1831 cod.civ. non era applicabile al rapporto di conto corrente bancario, alla luce del chiaro dato testuale dell'art.1857 cod.civ. e trovava applicazione alla fattispecie l'art.119 del T.U.B. che consentiva la chiusura contabile trimestrale, in concreto concordata tra le parti e provata in giudizio. Il ricorrente sostiene che alla vicenda in esame doveva invece applicarsi la specifica normativa dettata per i rapporti bancari dall'art. 119 del T.U.B. che prevede l'invio almeno annuale degli estratti conto, con la possibilità che le parti si accordino per invii a scadenze più brevi (semestrali, trimestrali o mensili). Nella parte finale del motivo la ricorrente inoltre lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 cod.proc.civ.) non avendo la Corte valutato l'avvenuta allegazione degli estratti conto trimestrali nonché la mancata e tempestiva contestazione di tale invio da parte dell'attore. 2.4. I tre motivi hanno in comune il presupposto dell'applicabilità dell'art.1832 cod.civ. in tema di onere di tempestiva impugnazione degli estratti-conto alla fattispecie a giudizio. Secondo l'art.1832, l'estratto conto trasmesso da un correntista all'altro s'intende approvato, se non è contestato nel termine pattuito o in quello usuale, o altrimenti nel termine che può ritenersi congruo secondo le circostanze; inoltre l'approvazione del conto non preclude il diritto di impugnarlo per errori di scritturazione o di calcolo, per omissioni o per duplicazioni, ma tale impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di ricezione dell'estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura, che deve essere spedito per mezzo di raccomandata. L'art.119 del Testo unico bancario, approvato con d.lgs. 1.9.1993 n. 385, al comma 2 stabilisce per i rapporti regolati in conto corrente l'invio dell'estratto conto al cliente con periodicità annuale o, a scelta del cliente, con periodicità semestrale, trimestrale o mensile ed aggiunge che in mancanza di opposizione scritta da parte del cliente, gli estratti conto e le altre comunicazioni periodiche alla clientela si intendono approvati trascorsi sessanta giorni dal ricevimento. Il Banco Popolare critica la decisione impugnata sottolineando che il Motta aveva ammesso di aver ricevuto l'estratto conto relativo al periodo in contestazione, sostiene che l'estratto conto aveva periodicità trimestrale, come ammesso dalla legge e concretamente applicato, e assume che comunque l'impugnazione avrebbe dovuto necessariamente avvenire con citazione in giudizio. 2.5. La Corte ritiene che la sentenza impugnata debba essere confermata con altra motivazione. In virtù della funzione del giudizio di legittimità di garantire l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, nonché in ragione di quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell'art.384 cod. proc. civ., deve ritenersi che, nell'esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata (o correlativamente infondata) la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d'ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l'esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l'esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell'esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l'efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l'integrazione di una eccezione in senso stretto (Sez.1,n.27704 del 03/12/2020, Rv. 659931 - 01; Sez. 3, n. 18775 del 28/07/2017,Rv. 645168 - 01; Sez. 6 - 3, n. 3437 del 14/02/2014, Rv. 629913 - 01; Sez. 6 - 3, n. 10841 del 17/05/2011, Rv. 617225 - 01; Sez. 3, n. 6935 del 22/03/2007, Rv. 597297 - 01). 2.6. La Corte ritiene che la disciplina dell'approvazione tacita dell'estratto di conto corrente ex art.1832 cod.civ. sia stata erroneamente ritenuta applicabile alla fattispecie da parte della Corte di appello, sia pure per poi trarne concrete conclusioni favorevoli al correntista Motta.2.6.1. Infatti, come risulta dalla stessa sentenza impugnata, Salvatore Motta aveva agito nei confronti della Banca, addebitandole il fatto di Paolo Piro, allora suo dipendente, ai sensi dell'art.2049 cod.civ. 2.6.2. Come è noto, tale norma in tema di responsabilità dei padroni e dei committenti, rende costoro responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. Stando all'orientamento prevalente, la norma configura una forma di responsabilità oggettiva, indipendente cioè dalla colpa del soggetto responsabile, per la quale chi, nell'adempimento della propria obbligazione o nell'espletamento della propria attività si avvale dell'opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro (Sez. 3, n. 25373 del 12/10/2018, Rv. 651162 - 0173; Sez. 3, 6/3/2008, n. 6033), ancorché non siano alle sue dipendenze (Sez. 3, n. 22619 del 11/12/2012, Rv. 624446 - 01). Il fondamento di tale responsabilità viene rinvenuto nella teoria del rischio di impresa e riposa sul principio «cuius commoda et eius incommoda» (ovvero dell'appropriazione o «avvalimento» dell'attività altrui), considerato espressione di un criterio di allocazione dei rischi per il quale i danni cagionati dal dipendente sono posti a carico dell'impresa, come componente dei costi di quest'ultima (Sez. 3, 12/10/2018, n. 25373; Sez.3, 27/8/2014, n. 18304). 2.6.3. Presupposti per l'applicazione dell'art. 2049 cod.civ. sono dunque: a) l'esistenza di un danno causato dal fatto dell'ausiliario; b) l'esistenza di un rapporto tra ausiliario e debitore (c.d. rapporto di preposizione); c) la relazione tra il danno e l'esercizio delle incombenze dell'ausiliario (c.d. occasionalità necessaria). In relazione a tale ultimo elemento, la giurisprudenza di questa Corte non richiede l'accertamento del nesso di causalità tra l'opera dell'ausiliario e l'obbligo del debitore, ritenendo sufficiente un «rapporto di occasionalità necessaria». In altre parole, l'incombenza affidata al preposto deve essere tale da determinare una situazione che renda possibile, o anche soltanto agevole, la consumazione del fatto illecito e, quindi, la produzione dell'evento dannoso, anche se il preposto abbia in effetti operato oltre i limiti dell'incarico affidatogli o contro la volontà del committente, ovvero abbia agito con dolo, purché sempre nell'ambito delle proprie mansioni, così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro (Sez. 3, 6/3/2008, n. 6033; Sez. 3, 24/1/2007 n. 1516; Sez. 3, 29/9/2005, n. 19167). 2.6.4. Da ciò appare evidente che l'azione proposta dal Motta e accolta dalla Corte catanese (vedasi conclusioni di pag.3; primo capoverso di pag.12 «la Banca appellata va ritenuta responsabile del fatto del proprio dipendente») era di carattere extracontrattuale e fondata sulla responsabilità per fatto altrui, esulando così completamente dal rapporto contrattuale di conto corrente. Ed in effetti risulta chiaramente dalla sentenza impugnata che l'attore aveva sostenuto di aver dato a Paolo Piro, funzionario di BPN la somma in contanti predetta con l'accordo che costui la impiegasse nella forma di investimento ritenuta più remunerativa e che invece costui, colposamente, aveva omesso di utilizzarla per alcuna operazione bancaria in favore dell'attore; e soprattutto che il Motta aveva chiesto la condanna della Banca per il fatto illecito, colposamente distrattivo, del suo funzionario. Gli istituti di credito rispondono infatti ordinariamente dei danni arrecati a terzi dai propri incaricati nello svolgimento delle incombenze loro affidate, quando il fatto illecito commesso sia connesso per «occasionalità necessaria» all'esercizio delle mansioni, (Sez. 1, n. 28634 del 15/12/2020, Rv. 660016 - 01; Sez. 3, n. 857 del 17/01/2020, Rv. 656687 - 01); il nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che esercita o di cui è titolare, va inteso nel senso che la condotta illecita dannosa - e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi - non sarebbe stato possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviati o abusivi od illeciti, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo. (Sez. U, n. 13246 del 16/05/2019, Rv. 654026 - 01). 2.7. Per le ragioni esposte i primi tre motivi di ricorso principale debbono essere respinti, poiché la decisione impugnata merita conferma, sia pure per diverse ragioni di diritto, senza addentrarsi nei temi della periodicità dell'estratto conto, del momento del suo ricevimento da parte di Salvatore Motta e della tempestività o meno della reazione di costui. 3. Con il quarto motivo di ricorso principale, proposto ex art.360, n.4, cod.proc.civ., il ricorrente Banco Popolare denuncia violazione dell'art.112 cod.proc.civ. 3.1. Il ricorrente lamenta in particolare l'omessa pronuncia sulla domanda avanzata dall'attore-appellante Salvatore Motta nei confronti del Niceta, volta a far condannare costui in solido con la BPN al pagamento della somma richiesta. 3.2. Il motivo è palesemente inammissibile. Il Banco Popolare non è legittimato ad impugnare l'omessa pronuncia in relazione alla domanda proposta da un'altra parte processuale, della quale non può «impadronirsi»; fa altresì difetto il requisito della soccombenza sul capo di decisione e financo l'interesse a dolersi del mancato accoglimento di una domanda altrui. 4. Con il quinto motivo di ricorso principale, proposto ex art.360, n.5, cod.proc.civ., il ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti. 4.1. Secondo la ricorrente, la Corte di appello non aveva valutato nella sua interezza la deposizione di Paolo Piro; le sue evidenti contraddizioni non erano state rilevate, o erano state superate con una operazione di salvataggio, riferendo gli avvenimenti dedotti dall'attore come avvenuti il 30/4/2001 ad una data diversa e anteriore (29/4/2001) che era comunque festiva (domenica) e quindi inverosimile. La ricorrente lamenta la palese erroneità del ragionamento svolto dalla Corte la quale, nella sentenza impugnata, avrebbe arbitrariamente modificato la data degli avvenimenti per cui è causa, in contrasto con le dichiarazioni testimoniali del Piro. Quest'ultimo, infatti, nel riferire i fatti a sua conoscenza, aveva confermato, come indicato nel capitolo di prova, che il giorno successivo alla dazione della somma da parte del Motta (cioè il primo maggio 2001) si sarebbe recato a Palermo per incontrare il Niceta e per effettuare il versamento in banca. Tuttavia la Corte territoriale, rilevando che sarebbe altamente inverosimile che i fatti riferiti si fossero verificati in un giorno festivo e ritenendo l'errore scusabile a causa del tempo trascorso, ha ritenuto «evidente che la data della dazione non poteva essere che quella del 29.04.2001» (pag. 9 sentenza impugnata). Non erano state considerate ulteriori rilevanti circostanze: ossia la mancanza di prova documentale del versamento da parte del Motta al Piro; il fatto che il soggetto autore materiale del versamento, tale Antonio Pagano, non lavorasse in quel periodo per BPN; la presenza documentata di Piro a Palermo il 30/4/2001. 4.2. Come questa Corte ha ripetutamente affermato, la riformulazione dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., disposta con l'art. 54, d.l. 22/6/2012, n. 83, convertito con modificazioni, dalla legge 7/8/2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l'«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 disp. prel. cod. civ., come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l'anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all'esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053). Il nuovo testo del n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ. introduce nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Costituisce un «fatto» agli effetti dell'art. 360, comma 1, n.5, cod.proc.civ., non una «questione» o un «punto», ma un vero e proprio fatto in senso storico e normativo, da intendersi come un «preciso accadimento o una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante non assimilabile in alcun modo a "questioni" o "argomentazioni» (ex multis, Sez. 6 -3, 11/3/2019, n. 6965; Sez. 2, n. 27415 del 29/10/2018, Rv. 651028 - 01; Sez. 1, 4/4/2014, n. 7983). Non costituiscono, viceversa, «fatti», il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5: le argomentazioni o deduzioni difensive (Sez. 2, 14/6/2017, n. 14802; Sez. 5, 8/10/2014, n. 21152); gli elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il «vario insieme dei materiali di causa (Sez. L, 21/10/2015, n. 21439). 4.3. Il motivo è inammissibile perché palesemente diretto a richiedere alla Corte di legittimità una rivalutazione nel merito della vicenda e una rivisitazione degli elementi istruttori acquisiti con riferimento alle circostanze di fatto accertate dai giudici del merito e in particolare alla dazione della ingente somma di denaro dal Motta al Piro. Non vi è alcun fatto decisivo che la Corte etnea abbia omesso di valutare: la deposizione del dott.Piro è stata considerata nella sua interezza, scrutinata sotto il profilo della attendibilità, positivamente apprezzata anche in ordine alla consapevole esposizione del testimone ad azioni di rivalsa, valutata nella sua complessiva plausibilità con riferimento ai rapporti intercorsi, collegata alle conferme esterne ravvisabili nelle dichiarazioni di riscontro di altri testimoni (Sanfilippo e avv.Antille), soppesata anche con riferimento all'indicazione come possibile autore materiale dell'erroneo riversamento in Antonio Pagano (espressa in forma solo dubitativa dal Piro). 4.4. L'incertezza sulla data precisa dell'episodio, ricollocato dalla Corte di appello al 29/4/2001, peraltro cadente di domenica, e non al 30/4/2001, data indicata dall'attore, per la ritenuta incompatibilità con il viaggio del Piro il 1/5/2001, giorno festivo successivo, a Palermo dal Niceta, non è affatto decisiva perché l'errore di datazione precisa dell'episodio appare del tutto marginale e non inficia la ricostruzione del fatto storico compiuta nei suoi tratti essenziali dalla Corte di appello, che peraltro ha chiaramente considerato scusabili le incertezze mnemoniche dei protagonisti nell'indicare cinque anni dopo il giorno esatto degli episodi e ha considerato, nella stessa prospettiva dell'approssimazione temporale, e ha dato rilievo al fatto che il Piro abbia situato cronologicamente la vicenda riferita non con parole sue ma per relationem rispetto al capitolo di prova che gli era stato sottoposto. 5. Con il sesto motivo di ricorso principale, proposto ex art.360, n.4, cod.proc.civ., la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art.167 cod.proc.civ.5.1. La ricorrente sostiene che la domanda subordinata «riconvenzionale trasversale» proposta da BPN nei confronti dell'altro convenuto Niceta era stata tempestivamente avanzata con la comparsa costitutiva depositata all'udienza del 1/7/2013, poiché l'udienza di comparizione era stata rinviata per vizio della notificazione dell'atto di citazione del Motta diretta proprio a Massimo Niceta, ossia l'altro convenuto destinatario della domanda riconvenzionale di garanzia, che aveva quindi avuto a disposizione un adeguato lasso di tempo per costituirsi successivamente in data 8/11/2013. 5.2. La Corte di appello ha ritenuto che la domanda di garanzia avanzata dalla Banca nei confronti del Niceta fosse stata proposta tardivamente, oltre i termini dell'art.166 cod.proc.civ., perché la Banca si era costituita in giudizio solo alla prima udienza di comparizione e non venti giorni prima. 5.3. Il sesto motivo così formulato chiede a questa Corte l'esame di una delicata questione processuale. L'art.167 cod.proc.civ. prevede che il convenuto nella comparsa di risposta tempestivamente depositata a pena di decadenza debba proporre le eventuali domande riconvenzionali e, se intende chiamare un terzo in causa, debba farne dichiarazione nella stessa comparsa e contestualmente chiedere al giudice istruttore lo spostamento della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'articolo 163-bis. cod.proc.civ. Il codice di rito, che prevede l'eventualità della proposizione di una domanda riconvenzionale del convenuto verso l'attore e della sua richiesta di chiamata in giudizio di un terzo, non regola espressamente l'ipotesi della domanda formulata da un convenuto verso un altro convenuto nello stesso giudizio, talora definita domanda «tra coevocati», o «trasversale», o ancora «riconvenzionale trasversale».5.3.1. Nel sistema processuale del codice di rito anteriore alla Novella del 1990 (legge 26/11/1990 n.353 e plurime successive modificazioni e integrazioni, breviter definite con la formula riassuntiva «nuovo rito») la giurisprudenza non nutriva dubbi sull'ammissibilità della proposizione di domande fra soggetti che fossero già parti del processo senza necessità di alcuna notificazione. Veniva infatti considerata sufficiente per la proposizione di una domanda di garanzia fra parti costituite la comunicazione di una comparsa nelle forme previste dall'art. 170 cod.proc.civ., ritenuta idonea a consentire al destinatario della domanda di interloquire sulla stessa e di apprestare le sue difese, senza che fosse necessaria la notificazione di un atto di citazione per il rispetto del principio del contraddittorio (Sez. 3, n. 894 del 26/03/1971; Sez. 3, 17/3/1990 n. 2238; Sez. 2, 21/10/1992 n.11501). Anche la dottrina considerava ammissibile la domanda «trasversale» proposta da un convenuto contro l'altro, non potendosi negare al convenuto quel che viene consentito al terzo interveniente, e riteneva inoltre che il litisconsorte potesse proporre la domanda «trasversale» con la comparsa di risposta, comunicando la stessa nei modi usuali e notificandola solo nell'ipotesi di contumacia. Il richiamato orientamento interpretativo ante Novella ammetteva quindi la formulazione di domande fra coevocati e si caratterizzava per l'elasticità del meccanismo di proposizione, svincolato da particolari formalità procedurali. Salva l'ipotesi della contumacia, veniva infatti ritenuto valido destinatario della proposizione della domanda il procuratore costituito, riferendosi a tal proposito all'art.170 cod.proc.civ., secondo cui, dopo la costituzione in giudizio, tutte le comunicazioni e notificazioni sono validamente rivolte al procuratore costituito in difetto di difforme disposizione legislativa e non alla parte personalmente. La soluzione così prevalente non esigeva il rispetto del termine a comparire e dava per scontato che esistesse in capo alla parte (e al suo procuratore) un onere di vigilanza e sorveglianza degli atti processuali anche nei confronti delle parti con cui non risultava istituito un reale contraddittorio processuale, in difetto di anteriore rituale proposizione di domande dall'una nei confronti dell'altra. 5.3.2. La questione si è riproposta con ben maggior rilevanza nel sistema processuale introdotto dalla Novella, in cui, anche in relazione ad esigenze di carattere pubblicistico di funzionalità e celerità del processo e di deflazione del contenzioso, la formazione del thema decidendum e l'estensione oggettiva e soggettiva del contraddittorio sono governati da regole assai più stringenti e rigorose di quelle precedenti, finalizzate ad evitare l'avvitamento del processo su sé stesso e a garantirne il procedere verso l'epilogo decisorio attraverso una ordinata successione di segmenti processuali tra loro concatenati secondo una sequenza tendenzialmente irreversibile. È parso quindi necessario interrogarsi se la soluzione adottata dalla pregressa giurisprudenza fosse compatibile con le linee fondamentali e le precise disposizioni del novellato codice di rito. 5.3.3. Ciò ha indotto una parte della giurisprudenza di merito, dopo l'introduzione della Novella del 1990, a ritenere che la domanda trasversale dovesse essere assimilata alla richiesta di chiamata di terzo e il convenuto dovesse perciò chiedere il preventivo differimento dell'udienza, per la notificazione della «chiamata trasversale» (tesi questa ripresa dal controricorrente Niceta a pag.11 del suo controricorso). Nella prevalente dottrina e, almeno apparentemente, nella giurisprudenza di legittimità è tuttavia prevalso l'opposto orientamento, ispirato a una esigenza di semplificazione delle forme, che assimila la «domanda trasversale» verso il coevocato all'ordinaria domanda riconvenzionale proposta verso l'attore, senza necessità del differimento di udienza e soprattutto della notificazione alla parte interessata; questo orientamento ritiene quindi sufficiente la proposizione della domanda trasversale con la comparsa di risposta depositata tempestivamente, che si reputa per ciò solo adeguatamente portata a conoscenza delle altre parti dello stesso processo, compresi gli altri convenuti. 5.3.4. La prima pronuncia di legittimità che si è occupata dell'argomento dopo la riforma processuale è la sentenza della Sez. 3, n. 12558 del 12/11/1999, Rv. 531062 - 01, secondo la quale, in caso di più convenuti, la domanda formulata da uno di questi nei confronti di un altro ed avente ad oggetto l'accertamento della responsabilità esclusiva del secondo rispetto alla domanda risarcitoria formulata dall'attore, va qualificata come domanda riconvenzionale, e può essere proposta negli stessi limiti di quest'ultima. Tale arresto non reca però argomenti decisivi a conforto del citato orientamento prevalente. In primo luogo, infatti, la pronuncia è stata resa con riferimento a fattispecie processuale ante Novella del 1990; in secondo luogo, il caso deciso si riferiva ad una domanda pressoché assimilabile ad una mera difesa, con la quale uno dei due soggetti convenuti in giudizio dall'attore come responsabili dello stesso fatto illecito negava la responsabilità propria e indicava l'altro come esclusivo responsabile. A ben vedere, tale linea difensiva non avrebbe richiesto neppure una domanda o chiamata nei confronti dell'altro convenuto, visto che si muoveva pienamente nell'ambito del rapporto originario dedotto dalla parte attrice. 5.3.5. La successiva pronuncia di questa Corte (Sez. 2, n. 6846 del 16/03/2017, Rv. 643373 - 01), reca la stessa massima della sentenza n. 12558 del 1999, che in effetti richiama, pur se la fattispecie e la concreta questione processuale da risolvere erano piuttosto diverse. In quel caso infatti si discuteva della tempestività della domanda «contro-riconvenzionale» proposta da un convenuto che si era visto attingere dalla domanda trasversale dell'altro coevocato (proposta tempestivamente e in concreto disattesa per ragioni sue proprie); la domanda «contro-riconvenzionale» trasversale era stata ritenuta tardiva in primo grado e tempestiva in appello; del tutto estranee al tema del contendere in sede di legittimità erano le modalità di proposizione della domanda trasversale e si discuteva piuttosto di quando e come il convenuto bersagliato dalla domanda trasversale potesse reagire con una ulteriore riconvenzionale (questa volta in senso proprio) trasversale. E nel caso la Corte ha escluso che potesse essere ritenuta tempestiva la reazione con la memoria ex art.183 cod.proc.civ. anziché alle udienze di prima comparizione e di trattazione (allora distinte). La seconda pronuncia (Sez.3, n.25415 del 26/10/2017, in motivazione) si è orientata in processo già regolato dal «nuovo rito» per la soluzione avallata dalla dottrina, riprendendo, anche dopo la Novella, l'indirizzo precedente che consentiva di proporre, con la comparsa di costituzione in giudizio, una domanda trasversale nei confronti di altro convenuto (Sez. 2, n. 9 del 04/01/1969, Rv. 337793 - 01; Sez. 3, n. 894 del 26/03/1971, Rv. 350793 - 01; Sez. 3, n. 2848 del 29/04/1980, Rv. 406594 - 01; Sez. 2, n. 577 del 24/01/1984, Rv. 432812 - 01) e conferendo decisivo rilievo ai principi di economia dei giudizi e di concentrazione processuale. Secondo questo arresto il meccanismo ex art. 269 cod.proc.civ. (citazione del terzo e differimento della prima udienza) trova la sua ratio nell'esigenza di consentire al destinatario della domanda di assumere formalmente la qualità di parte del giudizio, ma tale necessità non sussiste laddove la domanda sia rivolta nei confronti di un soggetto che in precedenza sia stato già evocato in giudizio e quindi abbia già assunto la formale qualifica di parte. Risulterebbe peraltro superfluo anche il differimento dell'udienza richiesto dall'art. 269 cod.proc.civ.: gli adempimenti processuali previsti da tale disposizione rispondono, infatti, all'esigenza di porre sul medesimo piano il terzo chiamato ed il convenuto originario, assicurando al primo una posizione analoga a quella del secondo, nel rispetto dei termini per comparire di cui all'art. 163 bis cod.proc.civ. Questa esigenza verrebbe meno nel caso di domanda proposta nei confronti di un soggetto che non è estraneo al processo. 5.3.6. L'orientamento così esposto non è però univoco nella giurisprudenza di legittimità. La sentenza della Sez.3, 12/4/2011 n.8315, non massimata, ha aderito (almeno in parte) alla tesi minoritaria circa la necessità di differimento e di chiamata, quando la domanda trasversale non si fonda sul medesimo titolo su cui si basa la domanda dell'attore, ma su di un diverso rapporto (tra cui la garanzia impropria). Sarebbe quindi sufficiente la riconvenzionale fra coevocati se il titolo è lo stesso, occorrerebbe la chiamata previo a mo' di terzo, se il titolo è diverso. 5.3.7. Il Collegio ritiene che l'esegesi rigorosa delle regole processuali vigenti induca a ritenere corretta la soluzione patrocinata dall'orientamento minoritario. Occorre infatti considerare, innanzitutto, che quanto alla domanda nuova proposta nei suoi confronti il coevocato non si trova in una posizione difforme da quella di un soggetto del tutto estraneo al procedimento, perlomeno in relazione al punto veramente centrale ed essenziale, che inerisce ai diritti di difesa. La dottrina processuale ha evidenziato la sostanziale affinità esistente tra la domanda proposta da un convenuto nei confronti di un altro e quella che lo stesso convenuto potrebbe proporre contro un terzo e ne ha ritenuto l'ammissibilità quando essa è comune con quella già proposta dall'attore o è diretta a riversare sul terzo garante il peso economico dell'eventuale soccombenza dell'originario convenuto. In buona sostanza, la domanda di un convenuto contro l'altro finisce con lo scontare gli stessi limiti di ammissibilità previsti dall'art. 106 cod.proc.civ. per la chiamata in causa di un terzo su istanza di parte e implicare il riferimento alla nozione di «comunanza di causa», capace di includere una notevole varietà di fattispecie, ovvero alla richiesta di garanzia. Così, la domanda tra convenuti sarà ammissibile, in caso di connessione per il titolo o per l'oggetto tra il diritto fatto valere dal convenuto e quello dedotto in giudizio dall'attore in via principale, oppure nell'ipotesi in cui il convenuto come debitore solidale o parziale, domandi che si accerti l'esclusiva responsabilità di un altro litisconsorte, o ancora allorché il convenuto pretenda di essere garantito dall'altro coevocato dalle conseguenze della sua soccombenza nei confronti dell'attore. Già partendo da questo solo elemento, sembra decisamente illogico che la domanda trasversale debba essere assoggettata agli stessi limiti che incontra la chiamata di un terzo nel processo, ma si debba discostare da questo modello quanto alle modalità di proposizione e alla tutela dei diritti di difesa del destinatario. 5.3.8. L'art.167, comma 3, cod.proc.civ., impone al convenuto di far dichiarazione in comparsa di risposta della propria intenzione di chiamare un terzo in giudizio e di richiedere il differimento dell'udienza ai sensi dell'art.269. Tale schema processuale è agevolmente suscettibile di estensione all'ipotesi di domande fra coevocati per evidente comunanza di ratio. Non sussiste infatti alcuna valida ragione per negare al destinatario della domanda trasversale il godimento di un termine a comparire, soprattutto in considerazione delle decadenze che verrebbero a maturare. D'altra parte, l'esigenza principale perseguita dal Legislatore con l'istituto di cui all'art.269 cod.proc.civ. era quella di consentire l'ordinato svolgimento dell'udienza di prima comparizione ex art.180 cod.proc.civ., destinata alla verifica della regolare introduzione del giudizio e della costituzione delle parti, prima dell'ingresso del processo nella fase di trattazione effettiva con l'udienza di cui all'art.183 cod.proc.civ. ovvero, dopo le modifiche apportate dal d.l. 14/3/2005, n. 35, dalla legge 14/5/2005, n. 80 e dalla legge 28/12/2005, n. 263 (riforme processuali c.d. « della competitività»), dell'udienza unificata di prima comparizione e trattazione. La richiesta di differimento dell'udienza di prima comparizione (nel regime applicabile al presente giudizio, introdotto prima del 1/3/2006) ovvero dell'udienza di prima comparizione e trattazione, quale onere imprescindibile del convenuto, trova conferma indiretta nella mancata esplicita previsione di regole relative alla presentazione delle difese da parte del destinatario della domanda, nello scenario scaturente dalla mancata riconduzione della chiamata del soggetto già convenuto all'istituto generale della chiamata di terzo. Val la pena di sottolineare che tale riconduzione appare possibile in virtù di una semplice interpretazione estensiva del concetto di «terzo» (inteso come estraneo al rapporto processuale instaurato per effetto della citazione fra l'attore e ciascuno dei convenuti), senza neppur far ricorso ad una vera e propria integrazione analogica. La presentazione di una domanda nei confronti di altro convenuto non preceduta dalla preventiva richiesta di differimento dell'udienza lascerebbe infatti nel vuoto normativo i tempi e i modi in cui il destinatario della domanda potrebbe formulare le sue difese e le sue eccezioni e formulare istanze di chiamata di ulteriori soggetti e proporre domande riconvenzionali. La soluzione, che pure è stata prospettata, nel senso della possibilità per il destinatario della domanda trasversale di richiedere un termine a difesa, oltre ad essere priva di base normativa, farebbe saltare il dogma dell'unità dell'udienza di prima comparizione/trattazione fortemente voluta dal Legislatore. L'unica soluzione concretamente praticabile che è stata affacciata, non a caso seguita dalla citata ordinanza n.25415 del 2017, consiste in una piena, seppur chiaramente penalizzante, equiparazione del convenuto destinatario della domanda trasversale all'attore attinto dalla domanda riconvenzionale, con la conseguente necessità di proposizione di domande ed eccezioni conseguenti alla domanda e di eventuali chiamate di terzi ulteriori in via orale all'udienza di trattazione (attuale testo dell'art.183, comma 5, cod.proc.civ.; art.183, comma 4, nel testo anteriore alle modifiche del 2005 e all'unificazione dell'udienza di prima comparizione e di trattazione). Non è chi non veda come questa ricostruzione penalizzi ingiustificatamente il convenuto destinatario della domanda trasversale rispetto a qualsiasi terzo, sia per la compressione, del tutto ingiustificata, del termine a difesa (venti giorni e non gli ordinari novanta, o più, del termine a comparire), sia per la preclusione di una difesa scritta scaturente dalla necessità di replicare in udienza, non senza esercitare anche un effetto negativo sulla preparazione dell'udienza di trattazione e dell'anticipata integrale cristallizzazione del thema decidendum. Il tutto sulla base di una equiparazione, assai precaria nell'identificazione dei tratti comuni delle due fattispecie, del coevocato all'attore che, avendo proposto una domanda e aperto il contraddittorio con il convenuto, può invece ragionevolmente aspettarsi la reazione da parte di costui. Non paiono fuor di luogo, inoltre, il richiamodell'elemento testuale di cui all'art.183, comma 4 (ora 5), che configura il solo attore come il protagonista della reazione processuale alla domanda riconvenzionale, e la memoria dell'origine etimologica dell'espressione «riconvenzionale», che possiede una evidente matrice «ritorsiva» rispetto ad una precedente azione del destinatario che le deriva dal prefisso «ri» (dal latino rursus); ed in effetti l'art.36 cod.proc.civ. prospetta il nesso di riconvenzione in stretta ed indispensabile connessione con la domanda proposta da parte attrice. 5.3.9. È stato da tempo ben chiarito che sussistono tre specifiche esigenze a cui occorre rispondere e cioè:a) che il convenuto contro cui la domanda è proposta ne sia efficacemente e tempestivamente informato; b) che in seguito alla proposizione della domanda il convenuto destinatario della domanda possa svolgere le sue difese senza alcun pregiudizio, come se fosse stato evocato in un giudizio ad hoc; c) che l'attore non veda inutilmente ritardate le cadenze processuali destinate a condurre il processo a definizione. L'equiparazione dell'altro convenuto al terzo ai fini della domanda trasversale soddisfa efficacemente le due prime esigenze, dal momento che il convenuto destinatario riceve direttamente l'atto processuale che la contiene e poiché il differimento dell'udienza di prima comparizione permette automaticamente di configurare la sede istituzionale tipica per tutte le iniziative processuali del destinatario. È pur vero che la terza esigenza di celerità subisce una inevitabile battura d'arresto: tuttavia le tre esigenze sopra evidenziate non stanno sullo stesso piano e non sottendono valori realmente comparabili, perché quella che il convenuto destinatario della domanda ne sia efficacemente e tempestivamente informato e quella che egli in seguito alla proposizione della domanda possa svolgere le sue difese senza alcun pregiudizio corrispondono a necessità inderogabilmente imposte dal rispetto di un fondamentale diritto soggettivo, costituzionalmente protetto, che è quello di difendersi e agire in giudizio in modo efficace e in condizioni di parità ai sensi degli artt.24 e 111 Cost. L'esigenza invece che l'attore non veda inutilmente ritardate le cadenze processuali destinate a condurre il processo a definizione nasce solo dalla aspirazione di buon andamento della amministrazione della giustizia, laddove non ne derivi per gli utenti un ritardo irragionevole, tant'è che il secondo comma dell'art.111 Cost., dopo aver solennemente enunciato i principi fondamentali del contraddittorio e della parità delle armi fra le parti e della terzietà e imparzialità del giudice, demanda alla legge la predisposizione delle condizioni per assicurare la ragionevole durata del processo. Pertanto tale esigenza di celerità deve cedere il passo di fronte al bisogno di ordinata e coerente trattazione del procedimento, come del resto si verifica in tutte le ipotesi in cui la partenza dell'iter processuale sia ritardata dal progressivo coinvolgimento di terzi nel giudizio, come può essere teoricamente all'infinito per una serie di chiamate in causa a catena, salvi i poteri discrezionali riconosciuti al giudice sulla base di esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo (Sez. U, n. 4309 del 23/02/2010, Rv. 611567 - 01; Sez. 1, n. 7406 del 28/03/2014, Rv. 630316 - 01; Sez. 3, n. 3692 del 13/02/2020, Rv. 656899 - 02). Laddove però, secondo le pronunce sopra ricordate, non venga discrezionalmente autorizzata la chiamata del terzo, l'istante non perde certamente il diritto di convenirlo in separato giudizio e la controversia viene semplicemente estromessa dalla lite in corso, mentre l'orientamento da cui si dissente ammette la chiamata trasversale dell'altro convenuto, ma incide sull'efficacia e sull'ampiezza dei diritti di difesa di costui in quello stesso giudizio, in ossequio all'esigenza di celerità. Il fatto che la citazione di terzo nei confronti del convenuto contenga elementi potenzialmente superflui non concretizza un grave pregiudizio perché quod abundat non vitiat; in ogni caso gli elementi indicati non sono del tutto inutili perché la nuova citazione vale a render noto al coevocato l'inserimento nel processo già pendente di una domanda nuova contro di lui rivolta e soprattutto la data della nuova udienza di comparizione, nonché a comunicare gli inviti ed avvertimenti che si rendono necessari proprio in relazione a tale ultima e nuova domanda, che innesca l'esercizio di tutta una nuova serie di diritti di difesa della parte destinataria. La diversa soluzione dell'equiparazione analogica della domanda trasversale alla riconvenzionale pregiudica fortemente l'efficacia di una prima udienza di trattazione non adeguatamente preceduta dalla completa formazione del thema decidendum per i proficuo svolgimento delle attività demandate al giudice nell'interesse pubblico dell'ordinata trattazione delle cause. Ciò, anche senza voler considerare il rinvio delle istanze di chiamata di terzi nel processo da parte del destinatario della domanda trasversale oltre la prima udienza di comparizione e/o di trattazione (a seconda del rito ante o post 2005) con inevitabile segmentazione della fase introduttiva e di trattazione del procedimento. Infine l'esigenza di prender visione delle comparse di risposta dei coevocati ai fini della verifica dell'assenza di domande contro di sé configura un onere di ispezione che presuppone l'apertura di un contraddittorio che nessuna norma consente invece di ritenere precedentemente attivato: l'onere di ispezione a carico del coevocato presuppone la proponibilità delle domande verso gli altri convenuti con il semplice deposito della comparsa di risposta, con evidente vizio di petizione di principio. 5.3.10. Secondo il Collegio, infine, non possono essere desunti argomenti di contrasto rispetto alla tesi accolta dall'art.292, comma 1, cod.proc.civ., secondo il quale le comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali da chiunque proposte sono notificate personalmente al contumace nei termini fissati dal giudice con ordinanza. Infatti tale norma, preesistente alla Novella processuale, va coordinata con il sistema di decadenze e preclusioni da essa introdotto e comunque non riguarda l'ammissibilità delle nuove domande (che sarebbero quindi aprioristicamente legittimate con lo scardinamento totale del sistema) ma semmai solo il modo della loro proposizione. Il riferimento alle domande riconvenzionali da chiunque proposte è reso necessario dall'eventualità, pur rara, ma sempre possibile, che il processo sia stato iscritto a ruolo dal convenuto e che l'attore destinatario della domanda riconvenzionale rimanga contumace, come può anche accadere nella fase di riassunzione dopo una eventuale interruzione. Il coordinamento sistematico della disposizione impone quindi di ritenere che l'art.292 in questione presupponga la già avvenuta costituzione di un rapporto processuale diretto fra i contendenti e disciplini la proposizione di una ulteriore domanda, se e in quanto ammissibile, esigendo la notificazione alla parte personalmente nel caso di contumacia, ma non concerna il caso in cui il rapporto processuale diretto fra i due soggetti non sia ancora costituto con la proposizione di una domanda dell'uno verso l'altro. 5.3.11. La Corte intende quindi conformarsi al seguente principio di diritto: «Nel processo civile, caratterizzato da un sistema di decadenze e preclusioni, conseguente alla novella di cui alla legge 26/11/1990 n.353 e successive plurime modifiche e integrazioni, un convenuto può proporre una domanda nei confronti di altro soggetto, pure convenuto in giudizio dallo stesso attore, in caso di comunanza di causa o per essere da costui garantito, facendo a tal fine istanza con la comparsa di risposta tempestivamente depositata a norma degli artt.166 e 167 cod.proc.civ. e procedendo quindi ai sensi dell'art.269 cod.proc.civ., previa richiesta al giudice di differimento della prima udienza allo scopo di provvedere alla citazione dell'altro convenuto nell'osservanza dei termini di rito». 5.4. Poiché la BPN ha proposto la domanda trasversale all'udienza di prima comparizione, senza costituirsi anticipatamente nel termine assegnatole ex art.166 cod.proc.civ., senza chiedere il differimento dell'udienza e senza notificare alcunché al coevocato Niceta, destinatario della domanda trasversale, la sua domanda doveva essere ritenuta inammissibile, sia pure per una ragione parzialmente diversa da quella addotta dalla Corte territoriale. V'è da aggiungere, però, che tale diversa ragione, conseguente alla complessa ricostruzione normativa sviluppata in precedenza, toglie ogni mordente al sesto motivo di ricorso proposto da Banco Popolare, suggestivamente fondato sull'assenza di pregiudizio per Niceta, raggiunto solo successivamente dalla notifica dell'atto di citazione dell'attore, scaturito dalla tardività della proposizione della domanda trasversale nel regime semplificato ritenuto sufficiente dalla Corte di appello della proposizione con le modalità della domanda riconvenzionale verso l'attore. In effetti la domanda trasversale è stata proposta in modo inammissibile, senza richiedere il differimento dell'udienza (carenza non sanabile secundum eventum litis) e comunque senza notificare alcun atto al Niceta. 6. I primi tre motivi del ricorso incidentale di Massimo Niceta possono essere affrontati congiuntamente. 6.1. Con il primo motivo di ricorso incidentale, proposto ex art.360, n. 3,4 e 5, cod.proc.civ., il ricorrente incidentale Niceta denuncia violazione di legge in relazione agli artt.115, e 116 cod.proc.civ., 119, comma 3 T.U.B., falsa applicazione di legge dell'art.1831 cod.civ., violazione degli artt.1821,1832,1857,2966 cod.civ., 132 cod.proc.civ. e 118 disp.att. cod.proc.civ. Secondo il ricorrente incidentale, anche secondo il ragionamento seguito dalla Corte di appello circa la cadenza semestrale degli estratti conto, il sig.Motta avrebbe dovuto comunque impugnare in sede giudiziaria l'estratto conto dell'ottobre 2001 entro l'aprile del 2002; dalla documentazione prodotta sia dal Motta, sia dal Niceta, risultava che la spedizione degli estratti conto avveniva con cadenza trimestrale. Inoltre - prosegue il ricorrente - l'art.1831 cod.civ. non era applicabile al conto corrente bancario in cui tutti gli estratti conto periodi posseggono il carattere di chiusura. L'impugnazione del 25/3/2003 sarebbe quindi da considerarsi comunque tardiva oltre il termine di decadenza sancito dalla legge.Aggiunge inoltre il ricorrente incidentale che, in difetto di prova circa il giorno della ricezione dell'estratto conto - dies a quo da cui doveva essere calcolato il termine perentorio per l'impugnazione - la Corte d'appello ha ritenuto che gli estratti conto di chiusura fossero semestrali a decorrere dall'accensione dei rapporti bancari tra il Motta e la BPN (in data 7/3/2000); lamenta però il ricorrente incidentale che la Corte di appello abbia omesso ogni motivazione sul perché il Motta non sarebbe incorso in decadenza tenendo conto che, anche a voler considerare come dies a quo del predetto termine qualsiasi giorno del mese di ottobre 2001, comunque l'azione del Motta avrebbe dovuto essere proposta entro e non oltre aprile 2002. Così opinando, la sentenza impugnata avrebbe violato anche gli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. non avendo la Corte d'appello considerato varie prove documentali depositate dalle parti che dimostrano in modo certo che l'invio degli estratti conto non avveniva su base semestrale, ma trimestrale. Niceta censura, inoltre, la falsa applicazione al caso di specie da parte della Corte d'appello dell'art. 1831 cod.civ., norma dettata per i conti correnti ordinari e non richiamata dall'art. 1857 cod.civ. per quelli bancari, aventi sempre carattere di chiusura, qualunque sia la loro periodicità. La Corte catanese avrebbe invece dovuto fare applicazione tanto dell'art. 119, comma 3, del T.U.B. (e di conseguenza il termine entro cui il Motta avrebbe dovuto contestare per iscritto l'estratto veniva a scadere entro il 31/12/2001) quanto dell'art. 1832, comma 2, cod.civ., espressamente richiamato dall'art. 1857 cod.civ., per cui l'azione demolitoria avverso l'estratto doveva essere avviata entro sei mesi dal ricevimento dell'estratto, mentre quella del Motta è successiva di 20 mesi rispetto alla ricezione. In definitiva, qualunque sia il giorno da cui si computa il termine de quo, alla data del 25/3/2003 (giorno in cui è stata notificato l'atto di citazione introduttivo del giudizio) la decadenza prevista dall'art. 1832, comma 2, cod.civ. si era certamente verificata. Il decisum della Corte d'appello violerebbe inoltre anche l'art. 2966 cod.civ., a tenore del quale la decadenza non è impedita se non dal compimento dell'atto previsto dalla legge, atto che, nel caso di specie, faceva difetto. 6.2. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, proposto ex art.360, n. 3, cod.proc.civ., il ricorrente incidentale Niceta denuncia violazione di legge in relazione agli artt.101,102 e 115 cod.proc.civ. Il ricorrente si duole del riferimento operato dalla Corte alla data del 29/4/2001, come data dell'episodio, senza considerare che tale data non era mai stata indicata da parte dell'attore nei propri atti e che quella data cadeva di domenica. Sarebbero state modificate «d'ufficio» le allegazioni del Motta, in contrasto con quanto emergente dagli atti e dalle risultanze processuali (in specie dalla dichiarazione testimoniale del Piro) e la sentenza impugnata avrebbe violato sia l'art. 112 che l'art. 115 cod. proc.civ. Peraltro, fa notare il ricorrente incidentale, la data del 29/4/2001 (indicata come quella corretta dalla Corte d'appello), della quale non vi era traccia negli atti processuali di primo e secondo grado del sig. Motta, era palesemente erronea, stante il fatto che quel giorno era domenica. Tale circostanza integrava un fatto notorio che la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare ex se ai sensi dell'art. 115, comma secondo, cod.proc.civ. 6.3. Con il terzo motivo di ricorso incidentale, proposto ex art.360, n. 3 e 4, cod.proc.civ., il ricorrente incidentale Niceta denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. in materia di valutazione e disponibilità delle prove con riferimento alle deposizioni dei testi Piro, Sanfilippo e Antille e della raccomandata BPN del 26/3/2003.Secondo il ricorrente incidentale, la Corte non avrebbe potuto rielaborare il contenuto della deposizione del teste Piro, attribuendo l'episodio a una data diversa da quella da lui e dall'attore indicata. 6.4. I tre motivi appaiono inammissibili, innanzitutto perché rivolti avverso una sentenza rispetto alla quale il Niceta non è affatto soccombente, poiché la domanda rivolta nei suoi confronti dall'attore Motta, respinta in primo grado, non è stata esaminata dalla Corte di appello e perché la domanda diretta nei suoi confronti dalla coevocata BPN è stata ritenuta inammissibile, perché tardiva. In secondo luogo, il Niceta non ha titolo di legittimazione, né interesse a impugnare, la sentenza resa nei rapporti fra la Banca e il Motta, né, per vero, a far valere asserite preclusioni relative a un rapporto contrattuale a cui è estraneo. La legittimazione e l'interesse neppure possono venir riconosciuti al ricorrente incidentale tenendo conto dell'impugnazione proposta dal Banco Popolare con il sesto motivo relativamente alla dichiarazione di inammissibilità della sua domanda trasversale rivolta contro il sig.Niceta, ut supra rigettato. L'esito negativo del predetto motivo di ricorso appare dirimente ed elide in radice ogni possibile recupero di interesse in capo a Massimo Niceta, che beneficia della confermata inammissibilità della domanda trasversale della Banca nei suoi riguardi, anche a prescindere dal fatto che il fondamento della domanda della Banca nella richiesta di restituzione dell'indebito è del tutto indipendente rispetto ai fatti costitutivi della pretesa del Motta verso la Banca. 7. Con il quarto paragrafo del suo ricorso incidentale il Niceta non propone un mezzo di ricorso e in realtà si limita a resistere sotto vari profili al ricorso principale nella parte contro di lui diretta e con riferimento ai mezzi quarto, quinto e sesto del ricorso di Banco Popolare.8. Con il quinto motivo di ricorso incidentale, proposto ex art.360, n. 3 e 4, cod.proc.civ., il ricorrente incidentale Niceta denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 2697 cod.civ. e 116 e 132 cod.proc.civ. per difetto assoluto di motivazione di una circostanza provata. 8.1 II controricorrente sottolinea di aver dedotto di aver consegnato al Piro alla fine di aprile 2001 in Palermo la somma di lire cento milioni e di aver prodotto estratti contabili e scheda contabile controfirmata dal cassiere BPN che attestavano il versamento da parte sua del 30/4/2001. Massimo Niceta sostiene poi che non doveva esser lui provare di non essere stato informato della «questione Motta», ma erano la BPN e il Motta a dover dimostrare di averlo informato della pretesa di quest'ultimo. 8.2. Il motivo è palesemente inammissibile, in difetto di soccombenza del Niceta, e si dirige verso valutazioni e accertamenti del fatto compiuti dal giudice del merito, insindacabili in sede di legittimità e comunque non produttivi di conseguenze nei suoi confronti. 9. Con il sesto motivo di ricorso incidentale, proposto ex art.360, n. 3 e 4, cod.proc.civ., il ricorrente incidentale Niceta denuncia violazione di legge in relazione agli artt.1, comma 2, lettera a), 29, comma 9, 35, commi 1 e 3, della legge n.675 del 1996, dell'art.622 cod.pen., e degli artt.1375, 1226 e 2059 cod.civ. in relazione alle domande risarcitorie da lui avanzate per violazione del segreto bancario, della buona fede contrattuale e della privacy, nonché difetto assoluto di motivazione per violazione dell'art.132, comma 2, n.4, cod.proc.civ. 9.1. Il ricorrente Niceta ribadisce che vi era stata una macroscopica violazione delle regole del segreto bancario e della buona fede contrattuale con commissione di illeciti civili e penali in suo danno con la divulgazione dei suoi dati personali Il rigetto di tali pretese era stato giustificato dalla Corte territoriale solo per la mancata prova del pregiudizio patrimoniale e morale di cui era stato chiesto il ristoro, e ciò confondendo l'onere di allegazione, che era stato soddisfatto dal Niceta, e l'onere della prova circa il loro ammontare, ben suscettibile di liquidazione equitativa. 9.2. La domanda risarcitoria dell'attuale ricorrente incidentale era stata respinta dal Giudice di primo grado perché il Niceta non aveva fornito alcun elemento sulla cui base il Tribunale potesse individuare concretamente e specificamente i danni asseritamente subiti e procedere quindi alla loro valutazione equitativa, ulteriormente impossibile in difetto di qualsiasi parametro per la sua commisurazione (sentenza impugnata, pag.12, penultimo capoverso). La Corte di appello ha posto in evidenza che il Niceta, allora appellante incidentale, si era limitato a pretendere una liquidazione equitativa del danno morale, senza fornire elementi di fatto che facessero da base all'individuazione dei danni e quindi alla valutazione equitativa. 9.3. Il motivo è manifestamente inammissibile, poiché non affronta e non confuta la ratio decidendi del provvedimento impugnato. Il ricorrente incidentale, nel suo sollecitare la liquidazione equitativa del danno non patrimoniale (morale) sostiene di aver allegato in giudizio, diversamente da quanto negato dalla Corte territoriale, il contenuto del pregiudizio sofferto e di aver fornito correlativamente gli elementi per valutarli, sia pur equitativamente. La Corte etnea non ha affatto negato il carattere illecito delle condotte, ma ha escluso che il ricorrente avesse allegato in giudizio il pregiudizio non patrimoniale patito. A pagina 16, primo paragrafo del ricorso incidentale, il Niceta indica, del tutto genericamente, e cioè senza riferirsi al contenuto di specifici suoi atti processuali, di aver «ampiamente dedotto in giudizio» i danni morali; già per questa sola ragione il mezzo di ricorso è carente di specificità. In ogni caso il ricorrente indica: a) il fatto di rischiare di vedersi sottrarre 51.000 C, a causa di operazioni poco chiare ordite da funzionari di banca con soggetti a lui sconosciuti, il che nulla ha a che vedere con le violazioni del segreto bancario e dei suoi dati personali e che semmai dipenderebbe esclusivamente dal fatto obiettivo del mancato versamento di tali somme sul suo conto corrente, circostanza comunque allo stato non verificata; b) lo stato di ansia e angoscia ingenerato da tale situazione, circostanza anch'essa del tutto indipendente dalle violazioni predette; c) la durata di un giudizio volto ad addossargli le conseguenze delle infedeltà dei funzionari di banca, fattore del tutto estraneo alle violazioni. In sintesi, anche in questa esposizione, scollegata dai riferimenti agli atti del processo, che sarebbero stati necessari per confutare l'affermazione della Corte etnea, il ricorrente si limita a prospettare la propria versione e la propria visuale della vicenda, senza considerare che il proprio coinvolgimento attiene solo al fatto se egli abbia o meno versato la somma di C 51.000 sul proprio conto corrente a fine aprile 2001 e soprattutto senza citare alcuna conseguenza pregiudizievole patita per effetto delle violazioni del segreto e dei suoi dati personali. 10. Con il settimo motivo di ricorso incidentale, proposto ex art.360, n.3, cod.proc.civ., il Niceta denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art.96 cod.proc.civ. con riferimento alla propria domanda di condanna per lite temeraria proposta nei riguardi del Motta, che aveva agito in aperta e consapevole violazione delle regole sulla decadenza dal potere di impugnazione degli estratti conto e utilizzando dati acquisiti illecitamente. La censura è del tutto infondata, anche a prescindere dalla ricostruzione in fatto operata dalla sentenza impugnata, perché questa, pur non rivedendo il rigetto disposto in primo grado della domanda dal Motta verso il Niceta, ha comunque ravvisato tra i due soccombenza reciproca, compensando le spese di lite. 11. Per queste ragioni devono essere complessivamente rigettati tanto il ricorso principale del Banco Popolare quanto il ricorso incidentale di Massimo Niceta, proposti sulla base di motivi inammissibili o infondati. Il ricorrente principale Banco Popolare e il ricorrente incidentale Massimo Niceta, in solido fra loro, debbono essere condannati al pagamento delle spese in favore del controricorrente Salvatore Motta, liquidate nella somma di C 5.000,00 per compensi, C 200,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge. Nei rapporti fra Banco Popolare e Niceta le spese meritano s compensazione anche per soccombenza reciproca. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale di Banco Popolare s.c. a r.l. e il ricorso incidentale di Massimo Niceta".